Alto magistrato romano, Ambrogio Teodosio Macrobio visse tra il IV e il V secolo d.C.. Oltre un trattato di grammatica, di lui abbiamo il
Commento al Somnium Scipionis di Cicerone (il VI libro del De Republica), e i Saturnalia in sette libri, dove sono trattate varie questioni di carattere antiquario, letterario, filosofico, ecc., ma, dietro il suo aspetto innocuo è, insieme al Commento, uno dei maggiori esempi (l’altro è il Commento a Virgilio di Servio) della resistenza sotterranea (o resilienza, come va di moda oggi) pagana al cristianesimo. Nonostante questo, la fortuna di Macrobio nel Medioevo fu immensa, soprattutto grazie al Commento al Somnium Scipionis, di cui, a riprova, si contano infiniti codici. Il Commento è, secondo il Thorndike «uno dei trattati più frequentemente reperibili fra i primi manoscritti medievali». Alla sua notevole influenza si deve soprattutto la presenza di temi platonici e neoplatonici in tutto il pensiero medievale. Infatti, insieme al Commento al Timeo di Calcidio, le opere di Macrobio, in assenza delle maggiori opere filosofiche classiche, che arrivarono in Europa solo in età umanistico-rinascimentale, sono state, insieme a Boezio, una delle fonti principali del platonismo del Medioevo occidentale. Tracce consistenti di Macrobio sono riscontrabili nella mitografia, nell’astronomia, nella cosmogonia e nella geografia del Medioevo, come pure in numerosi autori fra cui Ambrogio, Boezio, Isidoro di Siviglia, Giovanni Eriugena, Giovanni di Salisbury – che nel Policraticus riporta letteralmente interi brani dei Saturnalia – Alano di Lilla, Alessandro di Hales, Roberto Grossatesta, Bonaventura, Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno.
Di fronte a questo quadro, la presenza di Macrobio nello stesso Dante potrebbe darsi per scontata. In realtà Dante non menziona mai Macrobio, col risultato che, a prima vista, l’identificazione di Macrobio come fonte diretta di Dante risulta problematica. Tuttavia questo non ha scoraggiato gli studiosi, e, a partire dall’ormai leggendario articolo di H.T. Silverstein (1932) in The Times Literary Supplement, sono emerse numerose prove della presenza di Macrobio.
Silverstein proponeva, ad esempio, di far risalire la definizione che Dante dà del Flegetonte come “cieca cupidigia e ira folle” (Inf. XII 49) al Commento I 10 11. «Phlegetonthem ardores irarum etcupiditatum putarunt». Si potrebbe poi far risalire al Commento I 10 10 sgg. il tema dei fiumi infernali: Acheronte, Stige, Cocito. Cfr. ad es. «Cocytum quicquid homines in luctum lacrimasque compellit» (I 10 11) con Inferno XXXIV 36 («ben dee da lui procedere ogni lutto») e 52 sgg. («quindi Cocito tutto s’aggelava» ecc.). Rispetto a questi fiumi il tuffo nel Lete di Dante prima di entrare in Paradiso ha il carattere di un contrappasso. In effetti l’idea del contrappasso era già presente nel Commento di Macrobio (I 10 12 sgg.), ed è difficile non pensare che Dante ne abbia tratto ispirazione (senza per questo escludere altre fonti, come il Libro di Ardā Vīrāz, in cui nell’Inferno sono mostrati innumerevoli esempi di contrappasso).
Anche il riferimento al fiume Lete negli ultimi canti del Purgatorio (XXX e XXXI) potrebbe essere un ricordo del Commento I 10 9 e I 12 11, in cui si parla del Lete come della bevanda dei mortali. Ma in realtà tutto il lungo discorso, con cui Beatrice (che alle soglie del Paradiso sostituisce Virgilio come guida) rimprovera Dante per averla dimenticata, cadendo nella ‘selva’ del peccato, è pieno di echi neoplatonici e, addirittura, di echi degli Oracoli caldaici. Infatti i due versi di Purg. XXX 131-2 («immagini di ben seguendo false / che nulla promission rendono intera») corrispondono visibilmente al fr. OC 90 («giammai verace segno mostrando a un mortale i cani della terra»). I cani della terra, negli Oracoli caldaici, sono i cani del corteo di Hecate, ovvero una metafora delle passioni, che ci fanno vedere bello ciò che non lo è. Come questo frammento dei logia sia arrivato a Dante non è difficile da spiegare. Si tratta di un frammento che si ritroverà nella raccolta di Psello, la prima antologia di Oracoli caldaici, ma Boezio già lo citava, parafrasandolo, in Consolatio III 30.
La Consolatio philosophiae di Boezio contiene anche un altro oracolo caldaico (IV 38=OC 98), a riprova che Boezio li conosceva, verosimilmente attraverso Porfirio o Proclo. Dante, specie dopo la morte di Beatrice, diventa un avido lettore della Consolatio (vedi la minuziosa e fitta analisi di Luca Lombardo 2013, Boezio in Dante. La Consolatio philosophiae nello scrittoio del poeta), e quindi, indirettamente e inconsapevolmente, anche degli Oracoli in essa contenuti.
A tale proposito è bene ricordare che il lemma Lete è presente anche negli Oracoli (OC 109, 171), e da lì forse lo prende Macrobio, Commento, I 10 9 e I 12 11. Infatti il lemma viene usato in due accezioni diverse da Macrobio e da Dante. Per Macrobio, il Lete, come per gli Oracoli, è la bevanda che fa dimenticare agli uomini il mondo celeste, e, non si può ascendere di nuovo al cielo senza ricordare la bellezza della sfera divina. Per Dante/Beatrice, al contrario, ci si immerge nel Lete per dimenticare le passioni terrene, e senza questa immersione non è possibile ascendere a Dio.
Continuando lo spoglio dei luoghi paralleli, non si può non confrontare l’inno al sole di Purgatorio XIII 16-17 («O dolce lume… / tu ne conduci»), 21 («li tuoi raggi duci»), e 86 sgg. («l’alto lume… sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume»), con il passo di SaturnaliI 17 2 «Sol… dux et princeps et moderator est luminum reliquorum», oppure di Somnium IV 2 «Sol dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio», ossia Commento I 20 1 e 3 ss., e Saturnali I 18 17 «mundi autem mentem solem opinantur autores, a quo in homines manat intelligendi principium, merito boni consilii antistitem crediderunt (gli autori ritengono che il sole sia la mente del cosmo, da cui emana negli uomini il principio dell’intelligenza, quindi è giusto ritenere il sole patrono del buon consiglio) [echi del famoso quintum genus e quo essent astra mentesque dal De philosophia aristotelico attraver- so Cicerone. Si veda Ross frag 27]. E ancora: Virgilio è “mar di tutto ‘l senno” (Inf. VIII 7) come già in Macrobio (Saturnali III 2 2 senza la metafora dell’ara). La spiegazione che Beatrice dà dell’incapacità di Dante di sentire l’armonia delle sfere nel cielo di Saturno (Par. XXI 58-63) trova il suo luogo di origine (e la sua spiegazione) in CommentoII 4 14-5, come già nel 1834 aveva supposto Schlosser. I pruni spinosi di color fosco e senza frutti della selva dei suicidi (Inf. XII 4 sgg.) presentano alcune caratteristiche degli alberi infelici di cui parla Macrobio in Saturnali III 20 3.
Al di là di singoli episodi o di espressioni caratterizzanti entrambe le opere di Macrobio e di Dante, esistono poi una serie di motivi, ricavati da Macrobio o dallo stesso Cicerone in Macrobio (tanto più che il VI libro del ciceroniano De Republica si è conservato, fino al sec. XIX, solo tramite ilCommentodi Macrobio), che concorrono a formare momenti essenziali della stessa struttura narrativa della Commedia. Essi possono essere così elencati:
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- una precisa menzione degli Scipioni o di uno di loro;
- la missione: «quae dicam memoriae trade» (Somnium I 10);
- l’aspirazione alla vera gloria: il disprezzo della gloria terrena e la perseveranza nella virtù nonostante gli ostacoli umani, per garantire così l’ascensione agli astri;
- lo sguardo sulle sfere planetarie e il conseguente riconoscimento della miseria della terra;
- la localizzazione dal cielo stellato dello sguardo sulla terra;
- la vaticinatio ex eventu delle insidie del destino che minacciano il protagonista «non tam metu mortis quam insidiarum a meis» (III 2);
- i tratti nazionali romani nell’incontro con l’avo: a coloro che conservano, salvano e rendono più grande l’Impero romano spetta il premio dell’assunzione in cielo e la divinizzazione;
- l’inserimento della visione in un sogno (I 3: «me… artior quam solebat somnus complexus est»; IX 3: «Ille discessit; ego somno solutus sum»);
- il racconto in prima persona. Seguendo questa griglia è stato possibile far emergere l’influsso di Macrobio in quattro importanti episodi della Commedia:
- l’incontro con Cacciaguida;
- lo sguardo sulla terra dal cielo stellato;
- l’incontro con Anteo (nell’interpretazione medievale Anteo vuol dire contrario e così diventa in Dante il contrario infernale dell’ideale rappresentato dagli Scipioni: XXXI 100 sgg.);
- e infine l’invettiva di Pietro contro i vicari degeneri del regno di Dio in terra. Quest’ultimo episodio, in particolare, concorda con alcuni elementi tematici rilevati in Macrobio:
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- la menzione di Scipione Maggiore ( XXVII 61);
- la missione: «e tu, figliuol… apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo» ( 64-66);
- il tema della vera gloria al principio e alla fine dell’episodio ( 1-2 e 62);
- l’implicito sguardo sulla terra, in quanto subito dopo l’episodio segue il secondo sguardo al «sito / di questa aiuola» (cfr.XXVII 77-86 eSomn.VI 1), prima dell’ascensione al nono cielo;
- la localizzazione nel cielo stellato dell’incontro con l’avo della cristianità;
- gli aspetti nazionali romani del protrettico ciceroniano: «l’alta prove- denza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo» ( XXVII 61-62).
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Che Dante abbia letto il Somnium insieme con il Commento di Macrobio è ulteriormente comprovato dai due passi seguenti: Macrobio afferma in Commento II 12 3-5 che Scipione Minore ottiene dal primo Africano il permesso di guardare giù sulla terra solo dopo aver riconosciuto chiaramente la natura divina dei corpi celesti e la forza divinizzatrice della vera virtù che sdegna la gloria terrena:
nec prius eum terram patitur intueri quam caeli ac siderum naturam motum ac modulamen agnoscat, et haec omnia sciat praemio cessura virtutum… Africanus igitur, paene exutus hominem et defaecata mente iam naturae suae capax, hic apertius admonetur, ut esse se deum noverit
(il primo Africano non permette che egli diriga il suo sguardo verso terra prima di aver conosciuto la natura, il movimento e l’armonia del cielo e delle stelle, e che tutte queste cose saranno concesse come premio alla virtù… al giovane Africano dunque, quasi spogliato della sua condizione umana e con la mente purificata, viene apertamente ordinato di riconoscere di essere un dio).
In modo del tutto simile, dopo che Dante ha rivolto l’invocazione alle gloriose stelle a cui sospira la sua anima «per acquistar virtute» (Par. XXII 122), Beatrice ammonisce:
Tu se’ si presso a l’ultima salute /… che tu dei / aver le luci tue chiare e acute; / e però, prima che tu più t’inlei, / rimira in giù, e vedi quanto mondo / sotto li piedi già esser ti fei… (Par. XXII 124-29)
Il secondo passo riguarda “’l punto / de l’universo in su che Dite siede” (Inf. XI 64- 65), cioè “’l punto / al qual si traggon d’ogne parte i pesi” (XXXIV 110-11). Un’opinione quasi unanime fa risalire questa definizione direttamente a Somn. IV 3: «Ea quae est media et nona tellus neque movetur et infima est et in eam feruntur omnia nutu sua pondera».
Ma nel corrispondente passo del Commento I 22 4-8, si afferma inoltre che questo centro della terra «haesit in imo, quod demersum est stringente perpetuo gelu… hanc [la terra] spissus aer… undiqueversum fulcit et continet» («restò in fondo, e ciò che fu inghiottito nella stretta di un gelo perpetuo…un’aria compatta…sostiene, e rinserra la terra da ogni parte»). Parimenti il Lucifero dantesco è mezzo immerso nel ghiaccio del Cocito, simile a “un molin che ‘l vento gira”, “quando una grossa nebbia spira” e dalle sue ali si muovono tre venti per il cui effetto «Cocito tutto s’aggelava» (Inf. XXXIV 4-6 e 51-52).
Un ulteriore influsso, questa volta dei Saturnalia, emerge nell’importante scena del riconoscimento della guida (Inf. I 67-80), ove Dante giustifica la sua emulazione di Virgilio quale maestro della «parola ornata» con gli argomenti di Macrobio. Appena Dante riconosce l’identità di chi si presenta come cantore del «giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia, / poi che ‘l superbo Ilïón fu combusto» (I 73-75), mostra la sua gioia con la metafora: «Or se’ tu… quella fonte /che spandi di parlar sì largo fiume?» (79- 80). Con la stessa metafora Macrobio si fa elogiatore di Virgilio, che descrivendo la distruzione di Troia si sarebbe rivelato maestro impareggiabile dei quattrogenera dicendi: «Quis fons, quis torrens, quod mare tot fluctibus quot hic verbis inundavit?» (Saturnali V 1 10; hic, cioè nelle precedenti prove d’arte che Virgilio ha dato nella descrizione dell’eccidio di Troia). Dopo di che, Macrobio vanta gl’incomparabili stili dicendi di Virgilio (16- 18). In modo tutto simile, Dante, dichiaratosi discepolo del maestro, afferma che tolse da lui lo bello stilo che gli ha fatto onore (Inf. I 87).
Oltre a quanto esposto finora, la presenza di Macrobio, e più in generale del neoplatonismo, si avverte anche, o soprattutto, nell’architettura di base della Commedia. Emerge, in primo luogo, il tema dell’Ade celeste. In Omero l’Ade è esclusivamente sotterranea, è dipinta con colori tetri, le anime dei defunti che la popolano non sono che larve esangui. Negli orfici cambia radicalmente la concezione dell’anima, che diventa una sostanza immortale, ma la localizzazione e i caratteri foschi dell’Ade sotterranea non cambiano. La scoperta di un Ade celeste, e quindi di una bilocazione (sopra oltre che sotto) dell’afterlife si deve molto probabilmente a influssi della metafisica iranica della luce (vedi Lux perpetua di Franz Cumont) e ad opere come Ardā Vīrāz (di cui si è parlato anche come di una delle possibili fonti della Commedia). Questa nuova visione dell’aldilà trovava già espressione nel mito di Er della Repubblica platonica (dove gli influssi iranici sono stati ravvisati da sempre). Da Platone stesso deriva quindi la cornice del Somnium Scipionis, che successivamente, grazie al Commento di Macrobio, si arricchirà di temi neoplatonici.
Un tema platonico/neoplatonico per eccellenza è quella della materia come fonte di disordine, ignoranza, degrado dell’anima e annichilimento della sua razionalità. La “selva oscura” con cui si apre la Commedia coglie l’anima nel suo momento più basso, che già nel Timeo platonico (43 a 6 sgg.) consegue immediatamente alla sua prima incarnazione. E qui ci viene incontro Macrobio, affermando che l’anima singola, diversamente dall’anima cosmica, non è mai «aliena a silvestris contagione materiae» (Commento I 6 9), aliena dal contagio della materia terrena, appunto la hyle, la silva, la selva di Dante. Echi di questo passo si trovano, non a caso, in Dante (Purg. XXX 118-19): «Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa ‘l terren col mal seme e non côlto».
Quando taluni interpreti affermano che il neoplatonismo, grazie alla teurgia, ha una nuova concezione positiva della materia, dicono una cosa vera solo a metà. La materia di cui fa uso la teurgia è una materia ‘speciale’, che gli dèi stessi hanno sparso sulla terra come richiami delle entità spirituali e delle virtù dei cieli (vedi Ficino, De vita coelitus comparanda, III). Il resto della materia, sebbene sia essa stessa un sottoprodotto dell’energia divina (diversamente da quanto diceva Platone), resta fonte di traviamento, di ignoranza e di torpore dell’anima. Cito Macrobio, Commento I 12 7, che è la fonte principale del discorso ammonitore di Beatrice:
Quando l’anima è trascinata verso il corpo, in questa sua nuova attività comincia a sperimentare il tumulto silvestre, cioè la hyle [“silva”] che affluisce in essa. È ciò che ha osservato Platone nel Fedone [ma anche nel Timeo], quando descrive l’anima trascinata dal corpo che vacilla per un’ebbrezza mai prima sperimentata, volendo con ciò alludere all’inusitato flusso di materia corporea che la impregna e l’appesantisce nel corso della sua discesa.
Le anime che Dante incontra nell’Inferno non sono riuscite a svegliarsi da questo torpore, e per questa colpa sono condannate in eterno, senza possibilità di riscatto (quel riscatto che invece prevede il mito di Er, grazie alla dottrina della metempsicosi).
Un secondo tema, strettamente legato al precedente, è quello del veicolo dell’anima o veicolo astrale (ochema). Lascio di nuovo la parola a
Macrobio, che riprende e sviluppa l’argomento sulla falsariga del Timeo. Quando l’anima abbandona lo stato di perfetta incorporeità, scrive Macrobio, l’acquisizione del corpo non è immediata, ma graduale. L’anima si ingrossa infatti con successivi accrescimenti di sostanza siderale. Attraversando ciascuna delle sfere planetarie situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo («aetheria obvolutione vestitur», Commento I 11 12), e attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di sostanza terrena. […] L’anima quindi, trascinata giù dallo zodiaco e dal circolo latteo fino alle sfere sottostanti, mentre passa tra queste ultime, non solo prende in ciascuna di esse nuove vesti della materia del corpo luminoso («luminosi corporis amicitur accessu», I 12 13), ma riceve anche le differenti facoltà che dovrà poi mettere in pratica insieme, purtroppo, ai differenti vizi, altro ‘dono’ dei pianeti. Esiste, a tale proposito, una tradizione interpretativa, di cui vi sono tracce in Numenio di Apamea, che mentre colloca l’Ade celeste nella Via Lattea, localizza l’Ade infernale, non sottoterra, ma in mezzo ai pianeti, considerati prevalentemente apportatori di vizi (secondo una tradizione comune alla gnosi, allo zoroastrismo, ai manichei e ai mandei). In realtà nel Timeo le anime, all’atto della loro creazione (di numero finito pari a quello delle stelle) vengono collocate ciascuna su una stella, che Platone definisce il carro (ochema) dell’anima (41 e 2).
Poi sono costrette a incarnarsi dalle ‘leggi fatali’ (l’anima, a partire dal Fedro, è il motore dei corpi, quindi, una volta fatti i corpi, occorre collocarvi i motori, cioè le anime rispettive). In questa discesa, aggiunge Macrobio, acquisiscono ulteriori involucri stellari, insieme a virtù e vizi dei rispettivi pianeti. A contatto con la terra acquisiscono infine un corpo terreno, che Macrobio chiama “la feccia delle cose divine” («faex rerum divinarum», I 12 15). Il termine faex traduce skybalon, e fa parte del lessico dei logia caldaici (OC 158), che Macrobio aveva assorbito attraverso Porfirio (cfr. Ad/Adad in Saturnali I 23, 17 pp. 127-8 Kaster). Poiché la feci terrene hanno sporcato il veicolo dell’anima, esso dovrà essere ripulito con operazioni teurgiche, perché indispensabile alla risalita dell’anima (vedi Oracoli: anche l’ochema dovrà trovare posto nel mondo onnilucente, OC 158).
Questo schema di perfezione originaria dell’anima, poi discesa e quindi (per gli ‘atleti’ vittoriosi) risalita, riecheggia il consueto schema neoplatonico monè, proodos, epistrophè, ma è anche lo schema sottostante della Commedia dantesca. Nell’Inferno le anime scontano la colpa di aver ceduto completamente ai vizi acquisiti dai pianeti durante la discesa fino a precipitare nel gelo dei fiumi infernali. Da lì Dante, simbolo dell’umanità, inizia la risalita, e giunto, attraverso il Purgatorio, in Paradiso (lemma di origine iranica, presente anche negli Oracoli, OC 107, 165), ritrova le anime che hanno nuovamente indossato i loro corpi stellari. Di influenze celesti e di corpi luminosi, eterei, si parla appunto nei canti iniziali del Paradiso, in particolare il terzo. Lo stesso Sapegno fa il nome di Boezio e parla di influenze neoplatoniche. Ma direi che qui il nome di Macrobio, ancora una volta, sarebbe forse più opportuno.
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