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Sulle influenze dell’esoterismo islamico nell’opera dantesca

Di Davide S. Amore

Una volta il nostro vocabolario era pieno di “francesismi”, poiché il francese, allora, era considerato la lingua colta, letteraria; poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, tramontò l’astro della Francia e il suo ruolo nella cultura (ormai assai più tecnologica che letteraria!) fu assunto dall’inglese. Leggete un giornale, un manifesto, ascoltate una trasmissione alla televisione o un contenuto sul web: dovunque troverete “inglesismi” a non finire! E certuni persino orribili a vedersi…

Nel Medio Evo, ai tempi di Dante, la lingua araba rivestì, in Europa, il medesimo ruolo che ha avuto il francese ieri e che ha l’inglese oggi. Da allora, molte parole arabe sono ancor vive nella nostra lingua odierna: si pensi, ad esempio, ai vocaboli della chimica – come “zucchero”, “soda”, “alambicco” e via dicendo –, a quelli della musica – come “liuto”, “ribeca”, “chitarra”, “trovatore”, da trb = musica (si veda Shah 2004). Allora, infatti, la cultura araba appariva meravigliosa, quanto di meglio potesse esservi al mondo. Principale centro di irradiamento di questa cultura (oltre alle Crociate, beninteso) fu la Spagna islamica.

Splendidi – a fronte delle cupe e rozze dimore europee – apparvero agli occhi dei viaggiatori i palazzi dei Califfi e l’Alhambra di Granada; all’università islamica di Toledo accorsero, per imparare, le più belle menti d’Europa; tale cultura penetrò poi profondamente nella Francia meridionale (specie in Provenza), nella corte siciliana di Federico II, nella Toscana dei Medici e via dicendo; anche i monaci della celebre abbazia di Cluny si piegarono a studiare i testi dei dotti sufi. E questo con buona pace dei fautori del cosiddetto scontro delle civiltà che, ancor’oggi, continuano a considerare l’Occidente (comprendente l’Europa con l’aggiunta di Israele, il Nord America e parte dell’Oceania) come una sorta di blocco unitario dal punto di vista culturale, ritenuto inconciliabile tanto con l’Islam quanto con il Confucianesimo e accomunato da valori quali il liberalismo, l’individualismo, la democrazia e altri valori condivisi considerati come direttamente discendenti da supposte “radici giudaico-cristiane”.

Posto che, almeno per quanto concerne l’Europa – il Nord America merita un discorso a parte, di cui non ci si occuperà in questo contesto – sarebbe ben più corretto parlare di radici “pagano-cristiane”, dato il carattere politeistico (o enoteistico) dei popoli indoeuropei che occuparono il suolo continentale a cavallo del III millennio a.C., e constatato il fatto che l’accezione “cristiano” include già al suo interno il portato teologico del Vecchio Testamento, appare quantomeno fuorviante definire “Occidente” un’area come quella mediterranea in cui il processo di “occidentalizzazione” in non pochi casi è avvenuto con la forza e dove Cristianesimo e Islam, pur combattendosi, si sono reciprocamente influenzati.

Qui, per “occidentalizzazione”, si intende un processo/progetto di omologazione culturale lungo le linee della moderna metafisica della tecnica, che non ha risparmiato gli stessi miti del passato. Il caso più eclatante, in questo senso, è quello dell’Ulisse omerico/dantesco identificato in una sorta di Faust ante litteram (nel migliore dei casi) o di prototipo dell’uomo moderno, espressione della suddetta civilizzazione della tecnica (nel peggiore dei casi). Questo mentre Odisseo, al contrario, è un uomo puramente tradizionale: un homo religiosus che, in quanto tale, aspira semplicemente a vivere il più vicino possibile al centro del mondo. Lo stesso talamo nuziale a cui aspira a ritornare, ricavato da un albero d’ulivo, lungi dall’essere immagine dell’uomo che imprigiona e modifica la natura per i suoi scopi – come sostenuto da taluni esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte – è simbolo dell’Axis Mundi: quell’asse che non vacilla, in termini confuciani, che collega direttamente la terra al cielo.

Il viaggio dantesco di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole, al contempo, è simbolo di una umanità, quella occidentale, giunta al tramonto (a Ovest) della propria vita. L’Occidente, infatti, utilizzando un vocabolario heideggeriano, è immagine dell’”oscuramento del mondo” e del “depoten-ziamento dello spirito”. Non sorprende, dunque, che un pensatore tradizionalista come René Guénon abbia collocato l’inizio del declino occidentale più o meno nel medesimo periodo in cui Dante Alighieri portò a compimento la sua grandiosa opera. E forse, lo stesso Dante era già consapevole del decadimento del proprio mondo. Per questo motivo attraverso la sua opera egli aspirava probabilmente a un ruolo profetico, capace di rivitalizzare la cultura europea nella precisa consapevolezza che, come nel caso dei poemi omerici, la poesia può essere sempre rivelazione religiosa. Questa, per citare ancora una volta Heidegger, è il miglior strumento per la manifestazione della verità. Sotto il senso letterale del racconto poetico, infatti, si nascondono spesso un senso filosofico, teologico, politico e infine metafisico-esoterico.

La Divina Commedia non è affatto estranea a una simile interpretazione o categorizzazione. Essa, come affermava il già citato Guénon, è una «epopea… gnostica» che ha dimostrato l’esistenza di una tradizione iniziatica prettamente occidentale, forse andata totalmente perduta con l’insorgere della modernità nei medesimi anni in cui venne scritta. Il viaggio per i mondi sovrannaturali è simbolo dell’iniziazione alle verità divine. Il motivo della discesa agli inferi, della purificazione e dell’ascensione al cielo, inoltre, ritorna in tutte le dottrine tradizionali in quanto la metafisica pura non è mai né cristiana, né islamica, né pagana, ma semplicemente universale. Ciò premesso, sorge spontanea una domanda: la cultura islamica ha influenzato Dante e, in particolare, la Divina Commedia?

I più, a tale quesito rispondono affermativamente; anzi alcuni giungono ad asserire che Dante avrebbe conosciuto l’arabo sì che il famoso e misterioso verso «Papé Satan, papé Satan aleppe» (Inf. VII 1), altro non sarebbe che la trascrizione dell’arabo “Bāb ash-Shayṭān, bāb ash- Shayṭān, alabba”, che vuol dire «È la Porta di Satana, è la Porta di Satana, fermati!”, ovvero: «allontanati, fuggi!» (Si veda Troni 1954, pp. 97-100).

Vi furono anche opere arabe – assai simili, nell’impostazione, alla Divina Commedia – che trovarono ampia diffusione in Europa in versioni latine e provenzali (e quindi agevolmente leggibili da Dante, anche se non avesse conosciuto l’arabo). Già nel 1919, infatti, l’arabista spagnolo Don Miguel Asìn De Palacios pubblicò uno studio dal titolo La escatología musulmana en «La Divina Comedia» in cui si faceva aperto riferimento al fatto che il viaggio mistico nell’aldilà si ritrova da più parti nella cultura islamica e al fatto che Dante, in un modo o nell’altro, potesse essere a conoscenza di queste tradizioni.

Nella fattispecie, l’attenzione dei critici è rivolta soprattutto su Il Libro della Scala che descrive e commenta il famoso “viaggio notturno” (isrāʾ wa miʿrāj) compiuto dal Profeta Muḥammad, pace e benedizioni divine su di lui, sotto la guida dell’Arcangelo Gabriele, attraverso i tre Regni dell’Aldilà[1], fino a giungere ai piedi del “Trono dell’Increato” dove contemplò il “Velo dello Sconosciuto Infinito”. Nel corso di questo viaggio mistico (che i più ritengono compiuto in stato di trance) Muḥammad, pace e benedizioni divine su di lui, incontrò vari personaggi e profeti (da Adamo a Gesù) e varie personificazioni di concetti e idee (dall’”Angelo delle Lacrime” alla “Perfezione”). Le concordanze fra il suddetto Libro della Scala e la Divina Commedia sono davvero innumeri e riguardano non solamente l’impostazione generale dell’opera ma anche, assai spesso, singoli versi, concetti e simboli.

Altri influssi islamici, nella Commedia di Dante, si ritrovano:

  • quanto al concetto generale, nel Futūḥāt (o Conquiste spirituali) di Ibn al-ʿArabī (nato in Andalusia nel 1165 e morto a Damasco nel 1240; fu uno dei più grandi teosofi mistici e visionari di tutti i tempi);
  • quanto alla “legge del contrappasso”, su cui si basano castighi e premi del Poema dantesco, nelle opere di Avicenna, vissuto prevalentemente in Persia, tra il 990 ed il 1037.[2]

L’opera di Ibn Arabi Kitâb Al-Futūḥāt al-Makkiyya (ar.: كِتَابُ الفُتُوحَاتِ المَكِّيَّة, Libro delle conquiste spirituali della Mecca), di circa 80 anni antecedente al poema dantesco, tratta del viaggio per i tre regni sovrannaturali di due maestri sufi.

È bene sottolineare, ancora una volta, che il tema del viaggio per i tre regni ha un preciso valore iniziatico-simbolico. Dante, in primo luogo, smarrisce la “retta via”: in arabo aṣ-Ṣirāṭ al-mustaqīm, espressione presente nella prima sura del Corano. Da qui inizia un pellegrinaggio attraverso l’inferno (simbolo del mondo profano), il purgatorio (terreno di prove iniziatiche) e, infine, il paradiso (la dimora dei perfetti).

Il cielo invia a Dante Virgilio. Egli è simbolo del sapere iniziatico: il ramo d’oro che nella sua Eneide il nobile troiano raccoglie nella foresta è il ramo che portano gli iniziati di Eleusi, come pegno di resurrezione e immortalità. Nella tradizione islamica il cielo invia a Muḥammad, pace e benedizioni divine su di loro, così come ai maestri sufi di Ibn Arabi, l’arcangelo Gabriele come guida per il loro viaggio nell’aldilà. Così, a tal proposito, recita la sura XVII del Corano:

﴿ سُبْحَـٰنَ ٱلَّذِىٓ أَسْرَىٰ بِعَبْدِهِۦ لَيْلًۭا مِّنَ ٱلْمَسْجِدِ ٱلْحَرَامِ إِلَى ٱلْمَسْجِدِ ٱلْأَقْصَا ٱلَّذِى بَـٰرَكْنَا حَوْلَهُۥ لِنُرِيَهُۥ مِنْ ءَايَـٰتِنَآ ۚ إِنَّهُۥ هُوَ ٱلسَّمِيعُ ٱلْبَصِيرُ﴾

«Gloria a colui che condusse il Suo servo in un viaggio di notte dal Tempio sacro [la Mecca] al Tempio più remoto [Gerusalemme], di cui Noi abbiamo benedetto i dintorni, al fine di mostrargli parte dei Nostri segni. In verità Egli [Iddio] è colui che tutto ode e che tutto vede»

Lo studio di Asìn Palacios pose immediatamente il problema di come le tradizioni islamiche avessero potuto giungere sino a Dante. La semplice imitazione di un medesimo modello remoto, precedente sia al Cristianesimo che all’Islam, o delle fonti classiche (la visione di San Paolo, il viaggio di Enea o la versione persiano/mazdea del viaggio notturno, conosciuta col titolo di Arda Viraf Namej, di per sé, non sarebbero infatti sufficienti a spiegare delle analogie così evidenti.

Come accennato prima, ben prima dell’epoca dantesca, Oriente ed Occidente si influenzarono reciprocamente attraverso i contatti costruiti da pellegrini e mercanti lungo le vie carovaniere dell’antica Via della Seta e grazie agli Ordini militari cavallereschi che, recatisi in Terra Santa per difendere la cristianità, si trasformarono in un ponte tra due mondi. In un contesto di profondo sincretismo culturale come quello dell’area mediterranea, la diffusione nell’Europa occidentale dell’escatologia islamica avvenne nel corso dei secoli della presenza musulmana in Spagna e, in misura minore, in Sicilia. Proprio in Spagna, tra Toledo e Siviglia, lo studio degli ḥadīth profetici conobbe una notevole diffusione. Ed è qui che si recò, membro di una ambasceria, Brunetto Latini, futuro maestro di Dante e, non a caso, autore di una biografia del profeta Muhammad inserita all’interno della sua celebre opera Il libro del Tesoro.

A Brunetto Latini, come riporta la studiosa Valeria Pucciarelli (2012) si aggiungono altri due potenziali canali di trasmissione: il francescano spagnolo Raimondo Lullo, conoscitore e imitatore di Ibn Arabi, che visitò ripetutamente l’Italia tra il 1287 ed il 1296; il padre domenicano Ricoldo da Montecroce, che viaggiò a lungo in Oriente prima di tornare a Firenze, dove morì nel convento di Santa Maria Novella non dopo aver dedicato un intero capitolo del suo Contra legem sarracenorum al viaggio notturno di Muḥammad lungo le vie dell’ampiezza (isrāʾ) e dell’esaltazione (miʿrāj). Ad essi si aggiunge la diffusione del già citato Libro della Scala, in latino Liber scalae Mahometi, che per tutto il medioevo venne erroneamente ritenuto un testo sacro dell’Islam.

Tra coloro che hanno indagato sul tema da una prospettiva più ampia emerge indubbiamente il lavoro di Carlo Saccone (1991), al quale si deve la prima edizione in italiano del Libro della Scala[3]. Accanto a questa   puntuale    traduzione  è   possibile

reperirvi un breve saggio in cui l’autore (1991 pp. 155-198) ci offre un confronto estre-mamente inte-ressante tra di-verse esperienze di Himmelsreise elaborate in  am-bienti sia cristia-no-ccidentali che islamico-orientali.

In particolare, Saccone indaga ciò

che egli stesso definisce essere “i frutti orientali del miʿrāj” espressione con cui l’Autore indica le elaborazioni d’origine arabo-islamica aventi come punto di partenza proprio il corpus delle tradizioni sul miʿrāj profetico. In effetti, come sottolinea Saccone, in ambienti mistici si è presto imposta l’ansia  di riuscire a rivivere l’esperienza di Muḥammad, pace e benedizioni divine su di lui, percepita come esempio di tutte le visioni estatiche. Ad esempio, nell’XI secolo il sufi Abū Yazīd al-Bisṭāmī, originario del Khorasan, fu uno dei primi mistici ad attribuirsi una vera e propria ascensione in spiritu attraverso le stesse tappe già toccate dall’Inviato di Allāh. Analogamente, anche il genio di Avicenna si attribuisce tale esperienza nel suo celebre racconto Hayy ibn Yaqzān (in latino Vivens, filiu Desti), nel quale il filosofo immagina che la sua anima incontri la propria controfigura angelica, Vivens, e compia con essa un viaggio verso l’Oriente mistico. Per non parlare, infine, del Sayr al-ʿIbād ilà’l-Maʿād o Viaggio dei Servi nel Regno del Ritorno, poema in circa ottocento versi del sufi e poeta persiano Sanāʾī. Si tratta di un esempio tra i più noti della letteratura persiana di matrice esoterica e capostipite di una lunga serie di poemi persiani, nota come ciclo del miʿrāj, già definito da Nicholson (1944) “una Divina Commedia in miniatura”.

Pertanto, ove si voglia comprendere a fondo la Divina Commedia occorrerà non perdere mai di vista la cultura islamica di quei tempi, con particolare riguardo a quella praticata dai sufi, dai mistici e, più in generale, dai seguaci delle correnti sciite (vedasi in particolare la famosa setta degli Assassini – letteralmente: i “custodi”, i “guardiani”, guidata dal Vecchio della Montagna).

[1] Noti in arabo come Mulk, Malakūt e Jabarūt

[2] In merito all’influenza di Ibn Arabi su Dante, il Guillaume (1954) così dice: «enorme davvero fu tale influenza: il pensatore arabo fu il primo a descrivere l’Inferno, i cieli degli astronomi, il Paradiso dei beati, i cori degli Angeli moventisi intorno alla Luce divina, e la bella Donna che gli faceva da guida. Si l’Arabo che il Fiorentino dovettero scrivere un commento alle loro opere per dimostrare che i loro canti d’amore avevano un significato esoterico e non amatorio».

[3] Com’è noto, il testo originale arabo è andato perduto e la traduzione italiana degli 85 capitoli componenti il Liber Scalae segue di pari passo il testo latino e quello francese così come riportati da Enrico Cerulli (1949).

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