«Romanzo filosofico fantastico», «romanzo simbolico, pervaso di misticismo, che punta diritto al significato profondo dell’esistenza». Queste, come qualunque altra definizione, impongono al lettore superficiale una categorizzazione a-priori dell’opera, veicolata dai significati più comuni delle parole filosofia o fantastico, come di misticismo e simbolo, purtroppo ignara, o dimentica, del tesoro semantico e sapienziale custodito nelle loro etimologie. Un caleidoscopio di significati che vela la complessità dei temi che via via si mostrano nella lettura del Giuoco delle Perle di Vetro e si intrecciano in un labirinto di rimandi e connessioni senza fine.
Collegato all’aspetto definitorio è il confronto tra le diverse prospettive ermeneutiche con cui la critica, fin dalla prima pubblicazione, ha cercato di ascrivere l’opera ad un genere letterario. Alcuni lo hanno considerato un romanzo sapienziale; altri l’hanno interpretato nei termini di una critica alla filosofia della storia; altri, con argomentazioni parallele, hanno visto “agitarsi, dietro il principio fondamentale del Giuoco, lo spettro dello storicismo”. Ma un più attento settore della critica ha riconosciuto i rapporti del Giuoco con la filosofia – in particolare con il pensiero platonico e, tra questi, i più attenti hanno rinviato ai corollari in termini di alta politica della visione filosofica di Platone, avvalendosi anche del richiamo al pensiero di quei sapienti cinesi che, come era ben noto ad Hesse, avevano operato nella medesima direzione.
Lo stesso Hesse pare ipotizzare la preesistenza nei propri lettori di una sorta di idea a priori del Giuoco e struttura l’opera in modo abilmente selettivo, non nel senso di chiuderne allo sguardo profano ogni significato, bensì di promuoverne una fruizione che sappia svelare quel che è rivelato a seconda del grado di avanzamento sul sentiero iniziatico di chi si accinga alla lettura. In questo senso l’opera è simbolica, in questo senso la sua fruizione è potenzialmente in-finita, ad- dirittura oltre le conoscenze in possesso dello stesso autore, al momento della stesura.
Rapporto tra individualità, personalità e ordine spirituale
È lo stesso Hesse, attraverso la voce del narratore castalio ad informarci che “uno dei Supremi Principi della vita spirituale è la soppressione dell’individualità, l’inserimento possibilmente perfetto della persona singola nella gerarchia delle autorità pedagogica e delle Scienze”.
Sembra poi riecheggiare il Fulcanelli dell’Introduzione al Mistero delle Cattedrali quando aggiunge che è ”assai difficile, anzi in molti casi del tutto impossibile, scoprire particolari biografici e psicologici di persone che questa gerarchia hanno servito”. Elogio dell’anonimia, antitesi dell’Ego.
A sostegno della sua lettura, Hesse reca esempi dell’ininterrotta Tradizione alla base di questa impostazione del rapporto Ego-Mondo, dalla figura del Sapiente o del Perfetto presso gli antichi cinesi, all’ideale della Virtù socratica, sino alla Chiesa Romana nelle sue epoche più potenti, dove addirittura un personaggio come Tommaso d’Aquino appare piuttosto il classico rappresentante di un tipo che non una persona singola.
Tornerò più avanti sulla tragoedia dell’ego verso cui con sereno impeto procede la narrazione tutta, eppure già da subito lasciata presagire attraverso una sapiente disseminazione di parole, immagini, citazioni, moniti.
Per comprendere i fili del fato tessuti attorno alla sostanza esistenziale di Knecht è dapprima necessario inquadrare la tematica del gioco in sé e, conseguentemente, del Giuoco delle perle di vetro, in quanto “forma perfetta del Giuoco totale al centro dell’omonimo romanzo”. Accingiamoci alla sua intrinseca polisemia spirituale.
Il Giuoco: metodo rigoroso di una spiritualità laica
La storia delle concettualizzazioni del Giuoco delle perle di vetro, nelle sue varianti più vicine al nostro autore, riserva interessanti sorprese. Da Eugen Fink, secondo cui “il Giuoco pervade la vita: proprio perché mischiato con l’amore, la morte, il dominio ed il lavoro, li abbraccia tutti”, a Jean Braudillard che ammonisce su come “entrare in un Giuoco significhi entrare in un sistema di obblighi rituali e la sua intensità deriva da questa forma iniziatica”, si disegna il più profondo pathos e il più sublime e tradito telos del Giuoco: il conflitto sempre sullo sfondo tra vicende mondane dell’ego ed anelito trascendente dello spirito, la cui composizione viene presagita come necessaria dallo stesso Hesse, allorché, commentando la sua opera, ricorda che “non basta disprezzare la guerra, la tecnica, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto”. Lo stesso Knecht, al di là della peculiare declinazione che ne darà, reca da sempre scolpito nel proprio spirito un monito: «trascendere!». Sotto questo aspetto il Giuoco delle perle di vetro si rivela frutto sublime di quella spiritualità laica dipanantesi dall’opera omnia di Hesse. E non credo di esagerare sottolineando quell’omnia, fino all’Estate di Klingsor, la “più completa espressione del nuovo credo da lui descritto e profetizzato per tutta la vita”.
Ne abbiamo conferma proprio dalla difficoltà di inquadrare il Giuoco, che dà il titolo all’opera, in una delle quattro tipologie ludiche già individuate da Roger Caillois, che in questo romanzo si lambiscono e si compenetrano: tensione agonistica tra giocatori; tensione contro il fato, ma anche contro il Caos a cui tutto potrebbe tornare se il giuocatore fallisse; vertigine sull’orlo delle infinite (e ciascuna elevata a infinita potenza) possibilità che ogni mossa dischiude; soprattutto varco d’accesso ad un mai esplicitato, ma sempre alluso, mondo delle cause, che il Giuoco tende a dischiudere ai veri giuocatori e la cui sostanza sottile soggiace al reale: a quel reale dorato della Castalia come al reale profano a cui prima Designori ritorna e poi Knecht, infine, si riconsegna. I giuocatori si misurano con un esercizio intellettuale nel senso più spirituale del temine nello spazio trascendentale dischiuso dalle regole del Giuoco delle Perle. È vero, scrive Hesse, si parte da qualcosa, materiale o immaginale – un concetto, una sonata, un oggetto, un’immagine poetica – per farla poi evolvere, renderla progressivamente sempre più distante da sé stessa, in una teoria di trasmutazioni continue, di infiniti rimandi analogici, di “come se” che celebrano una sorta di laico carnevale dello spirito. Il ruolo della immaginazione è infatti centrale nel Giuoco e Mircea Eliade, ci ricorda “la disgrazia e la rovina di chi è privo di immaginazione […] tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della propria stessa anima”.
Eppure, occorre sgombrare il terreno da ogni possibilità di slittamento semantico generato dal significato profano di taluni vocaboli e non usare sic et simpliciter il termine immaginazione. È preferibile imaginatio, magari giustapponendo l’aggettivo vera, proprio per distinguerla da quella imaginatio phantastica da cui la sapienza rinascimentale – da Giordano Bruno a Dorneus – ci mette costantemente in guardia. Il prodotto fenomenologico dell’imaginatio vera scaturisce da una “mistica disciplina, ispirata da una visione trascendentale. Le regole del Giuoco sono ferree e solo dal rispetto delle regole nascerà quella immaginazione propria del Giuoco”. Quali siano queste regole non è dato al lettore conoscere se non per allusioni, a parte il costante richiamo alle operazioni propedeutiche al Giuoco vero e proprio, ad iniziare dalla scrupolosa e corretta meditazione: «le regole, il linguaggio figurato e la grammatica di que- sto Giuoco dei Giochi non si imparano se non per le vie consuete e prescritte, attraverso anni». Ma quali sono queste vie?
Dette regole, linguaggio e grammatica “sono una specie di linguaggio esoterico, sommamente evoluto, che comprende parecchie scienze e arti”. Soprattutto, sulla stessa linea che percorrerà Winnicott, il giuoco non è fine a sé stesso, non è esercizio di evasione, occasione di ostentazione di sé e del proprio virtuosismo. «Il gioco è una cosa incredibilmente seria» dirà appunto Winnicott ed il Giuoco è in connessione sottile con le stesse sorti spirituali dell’umanità.
Il testo di Hesse, in molti dei suoi passaggi, pur nel segreto iniziatico che ne cu- stodisce il profondo mistero e che alle regole soltanto allude, lascia intuire l’intento del Giuoco e le diverse declinazioni dello stesso metodo che sappiamo essere alla base dell’Ars combinatoria di Raimondo Lullo, dell’Ars memoriae di Giordano Bruno, della Mathesis universalis di Leibniz. Peraltro, in Leibniz ritroveremo le mede- sime categorie linguistiche del Nolano all’atto di scrivere a Rodolfo II d’Asburgo matesicamente ma adversus mathematicos. In essa viveva la possibilità di simboleggiare tutti i concetti in segni geometrici o algebrici. Quando Kant paragonò il filosofare teologico ad una “lanterna magica di chimere”, contemporaneamente comunicò un suo progetto: non tanto e non solo “raccogliere e ordinare in un’opera enciclopedica tutto lo scibile del suo tempo”, ma farlo “in forma simmetrica e sinottica intorno ad un centro”. Ovvero esattamente ciò che fa il Giuoco. In quest’ottica, superbo giocatore sarebbe stato anche il Borges della Biblioteca di Babele e di Tlon Uqbar e Orbis Tertius.
Riporto alcuni passi desunti dal testo avendo cura di porre in corsivo (quelle che io colgo essere) le parole chiave volte ad indirizzare il lettore verso una lettura ermetica dell’opera. Ecco le parole di Hesse.La capacità di applicare le figure e assiomi della geometria euclidea a concetti teologico-filosofici come similitudini chiarificatrici sembrano molto vicine alla mentalità del giuoco.[….] Da principio era solo una forma spiritosa di esercitazione mnemonica e combinatoria tra studenti e musicanti. [….]Passato dai seminari musicali a quelli matematici, si era evoluto fino a esprimere fatti matematici con segni e abbreviazioni. [….] Anche taluni ordini cattolici vi fiutarono una nuova aria spirituale e gli si rivolsero con entusiasmo, specialmente in alcune abbazie benedettine. [….] Dopo il perfezionamento il Giuoco divenne ciò che ancora è: insieme dei fatti spirituali ed artistici, culto sublime, unio mystica di tutti i membri dell’università delle lettere [….] è stato definito teatro magico.
Il frutto sono immagini attraverso le quali possiamo cogliere la realtà del mondo che da potentia si fa atto ed intuirne il tessuto, il Logos, che tutto connette e ordina. Da qui alla sapienza ermetica il passo è breve e lo stesso narratore castalio lo intraprende allorché precisa che il Giuoco non è né filosofia né religione, ma è disciplina a sé, arte sui generis. Tornano in mente le parole di Niccolò Cusano: per la cerchia ristretta dei veri giocatori, il Giuoco è quasi equivalente ad un “Servizio Divino pur prescindendo da ogni teologia particolare”. Anche ad ammettere (con le parole di Jacobus) che si tenti di elevarlo a qualcosa come un sacramento o perlomeno ad un mezzo di edificazione, il momento culminante delle potenzialità del Giuoco delle perle, prima del magistero knechtiano, si ebbe col Magister Thomas che contribuì alla conoscenza e all’inquadramento della stessa “alchimia in quanto lingua segreta, ricca di rivelazioni”.
Hesse non perde l’aggancio con le categorie iniziatiche neanche nel delineare le finalità del Giuoco. Si pensi, ad esempio, a quando afferma che i giocatori usano volentieri il verbo “realizzare” e considerano la loro azione come “passaggio dal divenire all’essere”, dalla potenza all’atto. Nello spirito del Giuoco tutto ha un significato universale, ogni simbolo e combinazione di simboli non porta verso singoli esempi, esperimenti e dimostrazioni, bensì verso il centro, nel segreto e nel cuore del mondo, del sapere originario. Ogni passaggio dal maggiore al minore in una sonata, ogni trasformazione di un mito o culto, se considerata attraverso un’autentica meditazione, non è altro che una via diretta al nocciolo del mistero universale dove nell’andare e venire tra inspirazione ed espirazione la santità si compie perennemente.
Il nostro Giuoco regale è davvero una lingua sacra, una lingua Divina. Hesse arriva a sostenere che si possa essere un ottimo, anzi virtuoso, giuocatore e persino un valente Magister Ludi senza intuire il mistero del Giuoco. Anzi proprio chi ne abbia l’intuizione e la conoscenza, una volta diventato specialista o dirigente di esso, può essere più pericoloso per il Giuoco di quanto sia chiunque altro.Infatti, il suo lato interiore tende a tra- scinare nell’Uno e nel Tutto, nelle profondità dove regna l’eterno respiro sufficiente a se stesso. Non si sarebbe più nel molteplice, né più capaci di gioire delle proprie invenzioni, costruzioni e combinazioni, ormai immersi in un piacere e una gioia tutti diversi. Siamo al Giuoco come tecnica dell’estasi, con echi di Eliade e Zolla.
La santità laica e il Magister Musicae
Insegna, da principio, il Magister Musicae al giovane Knecht: la Verità esiste, mio caro, ma non esiste la dottrina che desideri, assoluta, perfetta, che sola dia la saggezza. E tu devi desiderare il Perfezionamento di te. La divinità è in te, non nei concetti e nei libri. La verità si vive, non si insegna.
Ed ancora, nel parlare di una di quelle notti oscure dell’anima in cui si impantana il progresso lungo il sentiero della conoscenza, egli mostra non solo l’importanza del maestro che, nel ricapitolare maieuticamente le risposte ricevute, risale ai primi indizi di stanchezza, disgusto, ingorgo spirituale, ma dimostra quanto ciò sia effetto dell’essersi gettato nello studio a corpo morto. È quello il momento di ritrovare con l’aiuto altrui il controllo di sé e delle forze perdute, in cui occorre ricominciare dagli esercizi di meditazione.
Lo spirito della provincia è del resto fondato su due principi, da una parte “oggettività e amore del vero nello studio” e dall’altra “culto della sapienza meditativa e dell’armonia”. Equilibrare i due principi significa essere saggi e degni dell’Ordine.
L’amore per le scienze non dev’essere disgiunto dalla consapevolezza che la dedizione ad una di esse non può proteggere interamente un uomo dall’egoismo, dal vizio e dal ridicolo. Se altri secoli hanno cercato rifugio nell’accoppiamento di spirito e religione, di indagine e ascesi, in Castalia si cerca di scongiurare l’animalità e il diavolo che c’è in ogni scienza mediante la meditazione.
Eppure, anche il Giuoco delle perle nasconde “il suo diavolo, vacuo virtuosismo, godimento della propria vanità artistica, arrivismo, può portare all’acquisizione di poteri sopra gli altri castalii ed infine all’abuso di questi poteri”.
È il motivo per cui “occorre un’altra educazione, oltre a quella intellettuale” e i membri dell’Ordine si sono assoggettati alla “morale dell’Ordine” non per deviare la vita attiva spirituale verso una vita da sogno vegetativa, bensì per essere capaci di dare il massimo rendimento spirituale. Non si tratta di rifugiarsi dalla vita attiva nella contemplativa, né viceversa, ma di procedere alternando l’una all’altra, in fecondità coniugando percorso (e metodo) iniziatico ed ethos pubblico. La pratica iniziatica, solo allusa nelle pagine del Giuoco delle perle di vetro trova la propria più compiuta realizzazione nel Magister Musicae. Soprattutto la troviamo splendidamente compiuta al crepuscolo della sua esistenza: il suo stato di grazia, di perfezione, di saggezza, di beatitudine.
Dice Knecht parlando di lui: anche se noi non abbiamo un credo religioso, una chiesa, non per questo ci è ignota la devozione, proprio il nostro vecchio maestro è sempre stato profondamente pio e siccome in molte religioni si parla di uomini che hanno avuto la grazia, di uomini perfetti Illuminati e trasfigurati, perché non dovrebbe fiorire una volta anche la nostra devozione Castalia.
Il Magister ha “scelto questa, come una delle vie che conducono alla meta suprema dell’uomo, alla libertà interiore, alla purezza, alla perfezione”. Dal primo istante, dall’istante stesso della scelta, è come se non avesse fatto altro che lasciarsi compenetrare sempre più della musica, trasformandosi e purificandosi […] dalle abili e intelligenti mani di cembalista, alla immensa memoria musicale, fino a tutte le parti ed organi del corpo e dell’a- nima, al sonno e al sogno. Hesse descrive con incantate parole l’in- contro del giovane Josef col Magister Musicae. Si votava a quello spirito e a quel maestro, vedeva se stesso, la sua vita, il mondo intero, in quei minuti, guidato, ordinato e interpretato dallo spirito della musica.
Aveva sperimentato “la vocazione che si può chiamare sacramento, l’atto per cui il mondo ideale diventa visibile e si spalanca in un invito”. Eppure, ammonisce Hesse: «la vocazione non è soltanto un momento di felicità nel cuore e nella coscienza, ma anche un dono ed un avvertimento».
Varie sono le specie e le forme della vocazione, ma il nocciolo ed il significato dell’esperienza sono sempre gli stessi: l’anima è svegliata, trasformata o elevata dal fatto che invece dei sogni e dei presentimenti interiori si manifesta improvvisamente ed interviene un richiamo dall’esterno, un brano di realtà.
È lo sradicamento da un’esistenza, non più propria, verso un altrove ineffabile. Eppure, anche un grande tormento per Josef, perché “tutti lo abbandonavano senza che egli fosse sicuro di non essere lui ad abbandonare gli altri, di non aver provocato lui, per ambizione e presunzione, superbia e infedeltà, quel morire e quello stranirsi”. Sono i più acuti tra i tormenti di un’autentica vocazione, allorché “chi è chiamato non accetta soltanto un dono e un comando, ma si addossa anche quasi una colpa”. Da quel momento in poi, ogni gradino nella carriera lungo il nuovo sentiero non è un passo verso la libertà ma verso il legame.
Quanto più vasto il potere, tanto più rigoroso il servizio; quanto più forte la personalità, tanto più vietato l’arbitrio; quanto più una tesi riceve acuta ed inesorabile formulazione, tanto più resistente essa richiama l’antitesi. È la dialettica della libertà. L’idea castalia della libertà è diversa dal parallelo concetto profano, fino a definire la stessa libertà di professione una spaventosa schiavitù. Poiché solo dal momento in cui un vocatus entra in Castalia entra in uno stato privilegiato in cui ormai “non sa cosa sia il bisogno del denaro, la ricerca della gloria e di un posto nella società, non conosce partiti né dissidi tra la persona e l’ufficio, non dipende dal successo”.
Se egli, uomo giovane di senti- menti ed energie, non era più dispo- sto ad abbando- narsi all’atmosfera del momento, era perché ormai ad altro livello era desto, legato e obbligato. Da chi? Da cosa? Dall’Ordine stesso, della gerarchia in cui si sentiva incomprensibilmente inserito, dalla responsabilità, dal trovarsi in mezzo ad un mondo supe- riore che fa sembrare vecchi certi giovani e giovani taluni vecchi, che ti porta via l’innocenza mentre ti chiede purezza sempre più limpida.
Sin dai primi passi, il Magister Musicae istruisce Knecht sul rapporto tra apprendimento e formazione, tra trasmissione formale di nozioni ed evoluzione interiore. Afferma di aver sempre tenuto “a che gli alunni contassero con precisione le loro crome e semicrome”, ma esorta Josef, qualunque cosa egli possa (o voglia) diventare, a non illudersi che possa essere materia di insegnamento. Abbi rispetto del significato, ma non credere che lo si possa insegnare. Con questa pretesa, i filosofi della storia hanno guastato mezza storia universale, hanno introdotto l’era appendicistica e si sono resi complici dello spargimento di molto sangue. E – afferma – anche introdurre gli alunni ad Omero o ai tragici greci è impresa da non tentare dal versante della immediata proposizione della poesia come forma tangi- bile del divino. Occorre invece ren- derla accessibile alle menti attraverso la precisa conoscenza dei suoi mezzi linguistici e metrici.
Esplorare i mezzi, coltivare la tradi- zione, mantenere puri i metodi, anziché suscitare e accelerare quelle ineffabili esperienze riservate agli eletti, i quali peraltro sono spesso gli sconfitti e le vittime. E la maggior parte dei giocatori ed allievi, persino parte dei dirigenti e degli insegnanti – ci informa la voce narrante – non erano affatto giocatori in quel senso elevato e sacro, non consideravano il linguaggio del Giuoco come lingua sacra, ma come una specie di stenografia ingegnosa, e trattavano il Giuoco come specialità interessante o dilettevole, come uno sport intellettuale. Forse non sempre la ricerca dell’ultimo significato determina la qualità dei giocatori ma per lui diventava una questione di vita, il problema fondamentale della sua esistenza.
Quanto esposto circa le qualità esoteriche del Giuoco come ars trasmutatoria, suscettibile di operare in tal senso a condizione che il Giuocatore attui un continuo rectificando, attraverso una precisa disciplina iniziatica, diviene sempre più chiaro man mano che si leggono le pagine sul rapporto tra tecniche e fini. Richiedeva grande attenzione e concentrazione […] per scalare una via ripida, modificare e accrescere la facoltà di pensiero mediante esercitazioni matematiche e aristotelico-scolastiche. E ad un certo punto era diventato irrinunciabile anche l’introduzione del concetto di contemplazione.
Si era notato un inconveniente, che artisti della memoria sprovvisti di altre virtù eseguivano giuochi prestigiosi sbalordendo i partecipanti, ma questo fu a poco a poco vietato e la contemplazione divento parte importantissima del giuoco. Fu questa la svolta verso l’elemento che Hesse definisce religioso, sebbene nel laico ambiente castalio. Non bastò più seguire intellettualmente la successione di idee e il mosaico spirituale con pronta attenzione e con memoria esercitata, ma si pretese una più profonda dedizione dell’anima. Il giuoco diventava a poco a poco una possibilità di raccoglimento, elevazione e devozione per intelligenze assai evolute.
Non solo. Nel rammentarci che il Giuoco assomma in sé i tre principi – scienza, venerazione del bello e meditazione – la voce narrante ad un certo punto ci informa dell’esistenza di due declinazioni del Giuoco stesso. Una variante formale, che mirava a fare dei contenuti oggettivi di ciascun Giuoco un’unità possibilmente compatta e senza lacune ed un’armonia formalmente perfetta. Ma anche una variante noetica, che mirava ad un fine preciso.
L’unità e l’armonia, la completezza e la perfezione cosmica non nella scelta e nella disposizione, né nell’intreccio e collegamento, quanto piuttosto nella meditazione susseguente ad ogni tappa del Giuoco. Il Giuoco nella sua variante non presentava dall’esterno l’aspetto della perfezione, ma guidava il giocatore attraverso la sequenza delle meditazioni rigorosamente prescritte all’esperienza del perfetto e del divino.
Josef aveva iniziato presto ad intuire le origini della serenità e della tranquilla sicurezza del Magister Musicae. Proprio attraverso l’incontro tra que- sti due personaggi Hesse crea l’occasione per alludere a metodiche proprie della via iniziatica, certo, come tante ne ha generate la sapienza ad ogni latitudine ed in ogni epoca, eppure indicative del fatto che è proprio di questo che si sta parlando, a cominciare dall’esercizio sulla vis imaginativa nell’autobiografia fittizia sino all’abitudine ad osservare, come da vicino, il culmine e lo splendore di una lingua lungo il suo percorso epocale.
La capacità contemplativa nel cogliere la dynamis di un fenomeno è precisamente ciò che, se non controllato nella meditazione, agirà in senso corrosivo sulla stabi- lità della posizione di Knecht in Castalia, ma questo aspetto e la tragedia dell’ego che vi è connessa esulerebbe dall’oros di questa riflessione, fondata sulla centralità della dimensione armonico-musicale nel percorso di Knecht e della figura che nel volto, nei modi, nella luce che emana la incarna letterariamente: il Magister Musicae.
Fino alle sublimi pagine che mostrano l’epilogo del passaggio del Magister su que- sta terra e riportano le parole di Knecht al suo funerale, allorché il discepolo parlò soltanto della grazia del maestro nella vecchiaia e nella morte, con parole che ricordano quelle della figlia di Gustav Meyrinck al ricordo degli istanti al capezzale del padre. L’immortale bellezza dello spirito si era rivelata ai compagni degli ultimi giorni di Gustav, il compito che Platone assegnava alla filosofia era compiuto.
La sua morte non fu precisamente un morire, ma una progressiva smaterializzazione, uno scomparire della sostanza delle funzioni corporali, mentre la vita si raccoglieva tutta nello sguardo e nella leggera irradiazione del viso.
(Sybille F. Meyrink)