Nell’”anno di Dante”, il 700º dal passaggio all’Oriente Eterno del sublime Maestro spirituale, molte istituzioni, pubbliche e private, hanno inteso celebrare i sette secoli dalla sua morte: basti ricordare la sede ravennate dell’Alma Mater Studiorum, università di Bologna, dove, a pochi passi dal sepolcro del poeta, si sono già celebrati ben due convegni, uno nel 2019 e uno ora a settembre, con oltre 300 relatori. Né il Grande Oriente d’Italia è rimasto inoperoso, dedicando la Gran Loggia del 2021 a questo tema, dal titolo significativo: «Fratelli in viaggio per riveder le stelle». Non avrebbe potuto quindi mancare alla ricorrenza l’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim, per vocazione rivolto ai contenuti spirituali più puri esposti nelle loro opere dai Maestri Passati, che ha organizzato un convegno telematico sul tema lo scorso 12 giugno. Hanno partecipato, fra gli altri, il prof. Luciano Albanese, il prof. Davide S. Amore, il prof. Nuccio D’Anna, la dott. Aurora Distefano, il prof. Pietro Mander e il prof. Manrico Murzi: sono nomi di studiosi già sono noti ai cultori di Dante, per loro precedenti interventi in materia, e dei quali presentiamo in questa sede i contributi.
Poche parole per presentare gli articoli di questo fascicolo.
Fra la composizione del Somnium Scipionis, segmento del De re publica – purtroppo in gran parte perduta – di Cicerone e il Libro VI dell’Eneide passò circa un ventennio: un tempo minimo nella storia di una grande letteratura e nella trasmissione della sua anima. Roma, fra la fine della Repubblica e l’inizio del Principato era una fucina di pensiero tanto vivace da rivaleggiare con Alessandria. Fu un neo-platonico del V secolo d. C., più di mezzo millennio dopo, a raccogliere il testimone di quell’epoca così prospera di pensiero: Ambrogio Teodosio Macrobio. Egli scrisse infatti un esaustivo e profondo commentario al Somnium Scipionis, interpretandolo alla luce non solo del Mito di Er nell’omonima Repubblica platonica (titolo originale: Πολιτεία Politéia), ma anche dell’insegnamento contenuto nei versi virgiliani.
Di Macrobio ci parla Luciano Albanese, che ha illustrato quali riscontri della sua opera – non solo l’In Somnium Scipionis, ma anche i Saturnalia – siano individuabili nella Divina Commedia, che si pone in linea di continuità ideale con la tradizione che Virgilio raccolse e mise in poesia.
Molto si è discusso sulle fonti orientali della Divina Commedia: dal Miraji dello stesso Profeta Muhammad all’opera di Ibn-Arabi e successive elaborazioni, fino al Libro della Scala; la critica ha scavato in profondità per stabilire una linea di diffusione di singoli temi. l’argomento è ripreso da Davide S. Amore, che, confutando le teorie di ‘scontro di civiltà’ fra Cristianesimo e Oriente islamico, ci guida in nicchie defilate, dove sono riposti autentici tesori. Come ricorda lo studioso, citando anche i lavori significativi a riguardo di Carlo Saccone, la Spagna islamica appariva come una fulgida realtà agli occhi degli europei contemporanei: lo splendore non solo dei suoi monumenti, ma anche della sua tradizione culturale colpiva profon-damente gli uomini di cultura latini. Non avrebbe potuto essere altrimenti, che non insignificanti elementi di quella civiltà venissero assorbiti anche da Dante, e, comunque, dalla cerchia di intellettuali attorno a lui.
Quanti lettori si sono interrogati su cosa significhi quel primo verso di Inferno VII: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»? Ecco nello studio di Amore un’interpretazione perfetta-mente coerente con il contesto!
Di ardua penetrazione in contesti linguistici parla anche Nuccio D’Anna, che tratta di “linguaggi segreti”, atti a comunicare ai soli iniziati («coloro che possedevano “verace intendimento”») esperienze estatiche o aspetti dottrinali di metafisica. È il caso dei Fedeli d’Amore, la cui esperienza si colloca all’interno di una corrente che attraversa anche i gerghi delle corporazioni di mestiere. Figure letterarie o espressioni che si presentano quali frivolezze o giochi oziosi costituiscono, invece, comunicazioni su conquiste spirituali di altissimo livello: un compito quindi particolarmente difficile, coglierne i significati nascosti, tanto più a tanti secoli di distanza. D’Anna si concentra sia sulle espressioni linguistiche che sugli apporti ebraici, questi ultimi densi di contenuti iniziatici per via qabbalistica; lo studioso poi converge sul De Vulgari Eloquentia, ritenuto il trattato che offriva chiavi interpretative celate a riguardo.
Gli articoli di Amore e D’Anna pongono in rilievo l’apporto vicino-orientale proveniente dal mondo semitico, sia giudaico che arabo, la spiritualità dei quali è la manifestazione di una Tradizione che costituisce l’alveo in cui sbocciò la vicenda umana di Gesù, cui tutto l’ecumene greco e latino diresse la propria fede religiosa. Insieme allo studio di Albanese, che considera l’apporto greco e romano, Amore e D’Anna mettono in luce aspetti della Tradizione che precedette la composizione della Divina Commedia.
È riconosciuta la connessione fra canti della Divina Commedia contrassegnati dallo stesso numero nelle tre cantiche: Aurora Distefano ha dedicato uno studio a tali collegamenti. Nel presente contributo, riprende il tema, considerandolo sotto l’aspetto alchemico, nel quale il poema è nel suo insieme atto a fungere da Atanòr: anche visivamente infatti, l’imbuto dell’inferno e il monte del purgatorio (il secondo, come spiega Dante stesso è risultato della formazione del primo) possono essere composti come un triangolo col vertice in basso ed uno col vertice in alto, come i due triangoli appaiono nel Sigillo di Salomone. I cieli stanno tutto intorno, perché, come scrisse Talete (e riprese, quasi un millennio dopo Giamblico) «Tutto è pieno di dèi», ovvero «ogne dove in Cielo è Paradiso». L’opera alchemica, che si svolge nella coscienza, si articola in tre fasi: fisica, animica e spirituale, le quali corrispondono ai tre regni ultramondani del poema.
Se Distefano è partita da Venere, sia come pianeta che come angelo ribelle precipitato nel ghiaccio della Giudecca, Pietro Mander assume proprio questa figura come perno centrale della realizzazione spirituale di Dante, apertasi col capovolgimento sul pelo – appunto – di Lucifero. Lo studio ne completa uno precedente, in cui si era rilevato come il passaggio di Gilgamesh oltre il tunnel dove transita il Sole e l’approdo all’isola dell’immortale Noè babilonese, Ut-napishtim, alla ricerca dell’immortalità, fosse strettamente parallelo all’episodio di Catone di Purg. I. In tale contesto, Venere / Lucifero (sul cui pelo Virgilio, aggrappandosi, opera il capovolgimento di Dante) e «lo bel pianeto che d’amar conforta» costituisce la via che porta alla grazia della Madonna, che consentirà al pellegrino ultramondano la visione di Dio.
Distefano e Mander si riferiscono ad altre vie iniziatiche, quali l’alchimia o la tradizione babilonese, quella trasmessa nell’Epopea di Gilgamesh. Una prospezione tutta interna, invece, alla poeticità della Divina Commedia è affrontata approfon-ditamente con grande acribia nello studio successivo.
Il “volto bifronte” di cui scrive Manrico Murzi è configurato dalla natura duale dell’essere umano, limitato ma anche essere potenzialmente “aperto all’infinito e all’eterno”: l’umano nella sua singolarità condotto fino alla Luce ineffabile, la Realtà Suprema, al-Ḥaqq del sufismo. Un’allegoria, una finzione didattica, propone Murzi, dove
il verso poetico si plasma sempre più ‘luminoso’ e ‘musicale’, per esprimere una spiritualità inconcepibile nel mondo corporeo. Parallelamente si sfuma in splendori abbaglianti la forma umana, che conserva la sua individualità pur immergendosi nella beatitudine della condizione paradisiaca. Non per bizzarria, quindi, anche in Dio stesso si riconosce un volto umano («mi parve pinta de la nostra effige» Par. XXXIII 131). Dunque, si chiede Murzi, se il volto umano ha una sua positività, perché gradualmente svanisce durante l’ascesa attraverso i Cieli? Murzi cerca la risposta nella Vita Nova, citando anche il Vangelo di Giovanni 16, 16-18, per pervenire alla necessità del distacco da tutto ciò che è bene umano.
Lasciando alla lettura di questo fascicolo, contenente gli atti di un convegno svoltosi ‘a distanza’, si intende proporre questa nuova rivista quale sede atta ad accogliere studi provenienti da direzioni diverse: da profani come da massoni, purché convergenti verso la ricerca di quella verità che si cela nei nostri misteri.